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Come illustrato nel precedente post, l’elevato numero di certificazioni in Italia contrapposto con i dati macroeconomici negativi, evidenziano la presenza di un sistema autoreferenziale che oltre a non apportare benefici al sistema economico è vittima di un corto circuito che va a colpire soprattutto gli attori virtuosi (i consulenti con professionalità elevate, gli Enti di Certificazione rigorosi, ecc.).

Tra le principali cause di questo andamento, è stato, a mio avviso, l’intervento del legislatore nel sistema delle certificazioni, originariamente fondato sull’adesione volontaria da parte delle organizzazioni. Questo intervento, che alla luce delle nefaste conseguenze prodotte può essere considerata una vera e propria invasione di campo, si è realizzato in varie fasi e ambiti:

  • Nell’ambito della riforma relativa alla qualificazione delle imprese abilitate a partecipare alle gare d’appalto, che ha istituito le SOA (Società Organismi di Attestazione) nel 2000, la certificazione ISO 9001 è diventata un requisito fondamentale: obbligatoria per partecipare a gare d’appalto per importi superiori a 619.000 euro, ma con benefici notevoli anche per gare con importi inferiori (es. polizza fideiussoria dimezzata).
  • Le Norme Tecniche delle Costruzioni (dal 2008) richiedono la certificazione ISO 9001 dei centri di trasformazione dell’acciaio, mentre è richiesta la certificazione ISO 9001 alle strutture sanitarie che richiedono l’accreditamento al servizio sanitario nazionale
  • Numerosi bandi di gara per appalti di servizi (raccolta rifiuti urbani, servizi sociali, ecc.), prevedono, oltre alla certificazione ISO 9001, anche le certificazioni ISO 14001, OHSAS 18001 ed SA 8000, come requisito per le organizzazione che vogliano partecipare alla gara.

Fino all’intervento del legislatore il mercato delle certificazioni aveva avuto una crescita lenta ma costante. La diffusione delle certificazioni partiva generalmente dalle grandi aziende, soprattutto multinazionali, le quali richiedevano tale requisito a tutte le imprese coinvolte nella catena di fornitura. Gli incentivi alle imprese consistevano essenzialmente in finanziamenti regionali e nazionali che sostenevano fino a un massimo del 50% la spesa per la consulenze e per gli Enti di Certificazione. Una certificazione in quegli anni aveva una ben precisa connotazione:

  • Era DISTINTIVA rispetto ai competitors sul mercato
  • Era una scelta VOLONTARIA delle imprese che avevano una più o meno spiccata propensione al cambiamento
  • I progetti di consulenza erano tendenzialmente calati alla realtà aziendale, per modalità e tempi di erogazione del servizio, ed erano, evidentemente, più costosi e di qualità
  • Gli enti di certificazione erano pochi, più costosi, ma decisamente più rigorosi

La ISO 9001 era vista come una montagna da scalare, un obiettivo arduo per il quale l’organizzazione doveva lavorare duramente, e per il quale si doveva investire, e tanto, in formazione, aggiornamento delle competenze, e professionalità di alto livello.

Ricordo come un incubo il mio primo audit ISO 9001 (allora si chiamavano “Verifiche Ispettive”), da referente aziendale per la qualità (risultavo Responsabile, ma ero troppo giovane e inesperto per sentirmi davvero tale), nel lontano 1999 al termine di un lavoro durato un anno che io e il consulente ritenevamo buono, e invece…

  • L’auditor inviato da un importante ente di certificazione, di fronte ad un errore di pianificazione dello stesso (4 giorni pianificati invece dei 5 stabiliti dalle tabelle dell’allora Sincert, ora Accredia), per recuperare la giornata mancante, concordò (con noi e con la sede dell’organismo di certificazione) di continuare l’audit in quei quattro giorni fino alle dieci di sera.
  • Di fronte alle modalità di gestione del magazzino (in particolare per la parte relativa all’identificazione del prodotto), manifestò parecchie perplessità: la merce era stata identificata in maniera precaria mediante adesivi simili a post-it il giorno prima. Tutti eravamo convinti che il sistema di identificazione non era adeguato, ma mancava l’evidenza. Girò tutti i 6.000 metri quadri del magazzino finché non trovò uno di questi adesivi a terra, staccatosi dal prodotto che doveva identificare: aveva finalmente trovato l’evidenza della non conformità!!!
  • Alla fine dell’audit, condotto con una meticolosità e un rigore che non ho avuto mai più l’occasione di riscontrare, rilevò ben 12 non conformità e un numero ragguardevole di osservazioni, la cui gestione avrebbe richiesto un enorme sforzo da parte dell’azienda: sforzo che ci fu su base pluriennale, per cui le lacune individuate furono colmate soprattutto mediante un importante (e molto costoso) processo di informatizzazione aziendale.
  • Rimangono indelebili nella mia mente le telefonate quotidiane dell’auditor all’ente di certificazione, in cui manifestava i suoi dubbi circa l’esito della verifica, vista la gravità dei rilievi riscontrati, parlando dell’ipotesi di verifica suppletiva (follow-up). Alla mia prima esperienza lavorativa, rischiavo di esordire con un fallimento e di far perdere all’azienda i soldi del finanziamento associato a quella certificazione…
  • Indimenticabili rimangono anche le solenni riunioni (iniziale e finale), in cui per la prima e unica volta ho visto un po’ di timore reverenziale negli occhi dei manager aziendali.

Nonostante i traumi vissuti in quei miei primi anni di esperienza lavorativa, non posso negare di rimpiangere lo spirito con cui ci si poneva di fronte ad una sistema di gestione da certificare. Spirito che si è completamente perso con la “certificazione di massa” che, di fatto, il legislatore ha sancito con il suo intervento. Più business, meno professionalità, meno risultati tangibili per le imprese.

Ma di questo parlerò nel prossimo post.

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